Un film sull'immensità del cosmo, questo è il concetto dietro Il senso della bellezza, un'opera ambiziosa che mira a rendere visibile qualcosa di indefinito. Valerio Jalongo arriva al CERN di Ginevra per mostrare la vita degli scienziati che studiano i fenomeni all'origine dell'universo. La trama vuole spiegare quanta meraviglia si nasconde nel mistero del cosmo, la sua infinità e le domande che forse non troveranno mai risposta sulla sua creazione.
La metafora che il film adotta è quella di identificare la camera con l'occhio dell'uomo, il tentativo di mostrare i segreti del funzionamento dell'acceleratore di particelle è il tentativo della percezione umana di comprendere il funzionamento delle particelle subatomiche. Il contrasto nasce tra l'estetica del CERN, che all'esterno è un brutto esempio di architettura funzionalista collocato al centro di un quartiere degradato, e la realtà interna fatta di enormi elaboratori, tubi, cavi di proporzioni titaniche, che nel loro aggrovigliarsi ricordano l'arte moderna e astratta.
Lì vivono migliaia di ricercatori che senza stancarsi mai spingono un po' più in là la comprensione delle dinamiche dell'universo. Sono tutti molto giovani, non si perdono soltanto dietro i numeri ma hanno anche una grande immaginazione. Vivono isolati da tutto e da tutti, sottoterra tra chilometri di tunnel e gallerie, che ricordano un labirinto. Le diverse parti in cui è scansionato il film si susseguono verso la fine della narrazione con costanti parallelismi tra architetture, calcolatori, tecnologia e scienza, e arte classica, le opere architettoniche di Borromini, la titanicità dei monumenti di Roma, i misteri delle antiche pitture preistoriche ritrovate in Francia. L'idea che Valerio Jalongo vuole trasmettere allo spettatore è che la bellezza del cosmo possa essere spiegata attraverso la bellezza artistica.
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