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La recensione di Les Beaux Jours d’Aranjuez di Wim Wenders

Rosanna Ilaria Aprile 30, 2017

Les Beaux Jours d’Aranjuez è il nuovo film del regista tedesco Wim Wenders, realizzato per la quinta volta in collaborazione con l’autore e sceneggiatore austriaco Peter Handke, il quale ha scritto l’omonima pièce da cui è tratto il progetto. Ambientato in una tranquilla casa di campagna immersa nel verde durante il periodo della stagione più calda, l’estate, la pellicola presenta un uomo e una donna, interpretati rispettivamente da Reda Kateb e Sophie Semin e dei quali non si conosce il nome, che – seduti in un giardino mentre bevono della limonata – iniziano a parlare della loro vita passata, dei loro ricordi, con molta naturalezza e senza alcun imbarazzo. Sullo sfondo della loro conversazione, all’interno della casa è presente uno scrittore che immagina il dialogo tra i due e lo riporta su carta attraverso la macchina da scrivere, portando così lo spettatore a capire che tutto ciò che ascolterà e vedrà sarà solo frutto della fervida immaginazione di un uomo.

La recensione di Les Beaux Jours d’Aranjuez

Wim Wenders torna a parlare sul tema dell’importanza della comunicazione con grande maestria, sia in termini di riprese sia di dialoghi. Tutto il film si fonda sul bisogno dell’uomo di interagire con l’altro per conoscerlo meglio, per approfondire il loro rapporto. In questo caso, il dialogo tra i due interpreti è interamente basato su domande e conseguenti risposte, a partire dalla sessualità per poi arrivare alla loro infanzia, ai ricordi legati alla stagione estiva e alle differenze naturali e culturali tra i sessi. Qui Wenders sembra voler invertire i ruoli che solitamente distinguono l’uomo dalla donna: si dice, infatti, che la curiosità sia donna, mentre nella pellicola è l’uomo a porre i quesiti, come se volesse studiarla fino a scoprire il suo lato più vulnerabile, delicato, nascosto, segreto.

Inoltre, è chiaro l’intento del regista di rimarcare le caratteristiche proprie dei due sessi: da una parte, infatti, emerge una prospettiva femminile molto sensibile, mentre dall’altra ci troviamo di fronte a una percezione maschile più razionale. Wenders, però, sembra concedere maggior spazio alla figura femminile sia in relazione alla quantità di battute sia per quanto concerne il movimento della telecamera che – vuoi o non vuoi – in qualche modo la inquadra sempre a dispetto del suo co-protagonista. Ciò sottolinea quindi la volontà del regista di omaggiare la figura della donna. Ad incidere sulla riuscita o meno del progetto sono anche i tempi di battuta, troppi lenti per una qualsiasi pellicola cinematografica e più adatti a una moderna versione per il teatro della pièce di Peter Handke.

Sophie Semin, pur risultando in parte, rischia di essere ‘bocciata’ dal pubblico in sala per motivi dovuti a scelte registiche: la donna pare dividere parole e intere frasi in tempi precisi, quasi pre-stabiliti, che non sono utili a mantenere l’attenzione dello spettatore. Reda Kateb, invece, parla con una maggiore fluidità e ancora una volta ha dato prova di possedere grandi capacità attoriali. Un aspetto che ci ha colpiti è invece l’attenzione di Wim Wenders verso il dettaglio e, ancora di più, la natura che fa da sfondo ai due personaggi principali e la cui bellezza è rimarcata dall’uso della tecnica 3D, la quale è utile solo a dare rilievo all’ambiente: la pellicola, infatti, si svolge interamente nel giardino della villa. Oltre che dalla colonna sonora, la quale vanta la presenza di Perfect Day di Lou Reed e di Into my arms di Nick Cave, i suoni derivano anche dai rumori emessi dalla natura, come le foglie di un albero spostate dal vento.

 

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