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Split e il cinema dei “colpi di scena” di M. Night Shyamalan

Giuseppe Gariazzo Febbraio 2, 2017

Non è un grande cineasta, M. Night Shyamalan, non lo è mai stato. Piuttosto, un regista di idee che, salvo qualche lampo, rimangono tali, senza espandersi ed evolversi. Siamo di fronte, fin dal film che lo rivelò nel 1999, The Sixth Sense – Il sesto senso (ma in precedenza aveva già diretto Praying with Anger, 1992, dove si confronta con le sue origini indiane, e Ad occhi aperti, 1998, con protagonista un bambino alla ricerca di un appiglio dopo la morte della nonna), a un regista che, sembrando di non esserlo lavorando più sulla percezione che su quello che realmente si vede, costruisce i suoi lavori in maniera del tutto programmata, poco libera, con una struttura rigida dentro la quale conficcare i tanto celebrati colpi di scena finali, o post-finali.

Split (tratto dal libro Una stanza piena di gente di Daniel Keyes) conferma il percorso mai lineare di Shyamalan, nel senso di trasportare la sua poetica della sorpresa all’interno di film di genere diverso, privilegiando le atmosfere al confine tra normale e paranormale ma anche compiendo escursioni nel cinema d’avventura (si pensi a L’ultimo dominatore dell’aria, del 2010), fantastico (a modo suo lo è Lady in the Water, 2006), di fantascienza (vi rientrano E venne il giorno, 2008, e After Earth, 2013). Split, come il precedente The Visit (2015), è un ritorno alle inquietudini psicologiche e fisiche narrate aderendo al thriller, all’horror e a situazioni cariche di mistero, già esplorate nei suoi film di maggior successo, da The Sixth Sense a Unbreakable – Il predestinato (2000, finora il suo testo migliore), da Signs (2002) a The Village (2004), i due lungometraggi più costruiti a tavolino e più deludenti, fino a sfiorare il ridicolo.

Il fascino di Split sta nella sua rozzezza filmica, nel tentativo di rendere con scelte di stile multiple e talvolta inguardabili (vale a dire dove posizionare la macchina da presa negli spazi ristretti e claustrofobici di stanze della segregazione in cui sono costrette a vivere, e due di esse a morire, le tre ragazze rapite) la mente di un uomo (James McAvoy) abitato da ventiquattro personalità che si danno il cambio nel prevalere e nel trasformare di volta in volta l’identità del personaggio, colpito da una forma estrema di disturbo dissociativo e in cura da una psichiatra (che pare interessarsi a lui più come cavia per le sue conferenze che come essere umano in grado di giungere al sequestro, alla violenza e all’omicidio, o, quantomeno, di accorgersi troppo tardi dell’ulteriore deriva raggiunta dal suo paziente). Con un andamento filmico anch’esso dissociato, nel segno del B movie sgangherato (da accogliere sempre con piacere…), di una esplorazione degli spazi come fossero parti del cervello del protagonista, di un inserimento slabbrato e schematico di flash back riguardanti il passato dell’unica ragazza che si salverà perché simile allo psicopatico (evidenziata nella scena dello scontro finale fra lei e lui), avendo entrambi subìto da bambini indelebili ferite nel corpo e nell’anima, Split avanza e retrocede nel gioco spazio-temporale per poi piazzare il colpo di scena. Che non ha, come in altri film di Shyamalan, funzione diegetica, che non è innervato nella narrazione. Possiede, invece, un peso extra-diegetico, esterno al tempo della narrazione e interno alla filmografia del regista, con l’apparizione di Bruce Willis in un cameo che mette in stretta relazione questo film con Unbreakable, dove interpretò uno dei due personaggi principali. Ma non si tratta che di un gioco che dovrebbe stupire e non fa altro che ribadire il pensiero di un cinema poco originale da parte di un regista dai progetti coinvolgenti e dai risultati decisamente sopravvalutati.

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